La nostra presidente Giovanna Melandri per AFFARI & FINANZA: “I ministri fanno su e giù da Bruxelles nel tentativo di ritardare il piano di riconversione della Commissione. Ma il mercato ha già registrato quegli obiettivi. Ora la priorità dev’essere trovare i finanziamenti”.
Stop and go, discontinuità, tentativo di procrastinare le scadenze. Sono giorni che assistiamo ai viaggi a Bruxelles dei ministri del governo Meloni (che, ricordo, ha votato contro la Von der Leyen e il green deal), per cercare di ritardare il grande progetto che ha posto l’Europa in una posizione di leadership strategica sulla transizione ambientale e sociale. Perfino il governatore della Banca d’Italia Panetta in occasione della conferenza G7 IEA (che è non un pericoloso ambientalista o ideologico) ha detto che «i governi delle principali economie mondiali hanno il compito di guidare il processo della transizione… evitando politiche discontinue».
Questo atteggiamento del governo non fa nemmeno bene alle imprese italiane, che sono in larghissima maggioranza molto più avanti di così, notoriamente leader nell’economia circolare e che si stanno predisponendo all’applicazione della direttiva sulla rendicontazione non finanziaria. Il mercato, anche quello italiano, ha già registrato gli obiettivi del social green deal. È la cultura del governo che invece è eco-ansiosa e arretrata. Molto diversa la postura necessaria: servono proposte concrete per accompagnare l’ambiziosa “competitività sostenibile” europea con politiche industriali, fiscali e consistenti flussi finanziari.
Occorre urgentemente canalizzare sul mercato dei capitali finanza climatica, esg e a impatto sociale. È questa l’agenda dell’impact economy. Il social green deal, malgrado il gran da fare delle destre europee, continuerà ad essere (e per fortuna) il perno delle politiche europee della nuova commissione. Certo ora l’Europa deve accelerare sul Clean Industrial Deal e l’Industrial Decarbonisation Accelerator Act, anche per esercitare la sua leadership esistenziale attraverso la trasformazione della sua manifattura e diventare un modello globale per l’innovazione e la decarbonizzazione. Il vero punto debole, come ha evidenziato Draghi, è il finanziamento di questo massiccio progetto di conversione.
Servono tre piani Marshall, 800 mld ha detto. Debito e politiche fiscali comuni, incentivi a partenariati pubblico privati per mobilitare una dimensione di investimenti ad impatto all’altezza della sfida; la dimensione finanziaria rischia altrimenti di essere l’anello debole della catena. Prendiamo l’automotive. La realtà è che sono le industrie automobilistiche che non vogliono la proroga, piuttosto sono interessate a una maggior flessibilità su un obiettivo intermedio. La battaglia italiana contro l’auto elettrica è donchisciottesca: il mercato ha deciso ed è il mercato bellezza, che di certo non torna indietro. Bastone e carota. Più volte ho scritto, anche su queste colonne, che questa legislatura europea dovrà essere (dopo quella del bastone) quella della carota. Il quadro regolamentare ormai è chiaro e tracciato, e guai ad ingranare, questo sì ideologicamente, la retromarcia, con i goffi tentativi del governo italiano. Adesso servono investimenti e strategie comuni per accompagnare la transizione. Ed è questo il fuoco della finanza esg e ad impatto sul quale ci battiamo da oltre dieci anni. C’è bisogno di un massiccio piano di investimenti impact — keynesiani, pubblici e privati che sostengano la transizione. E se nell’Europa sott’acqua (non è maltempo, è emergenza climatica) è giusto chiedere a gran voce un progetto finanziario comune, non ha nessun senso fermare il treno della transizione, sul cui binario si sono già messe le imprese italiane.
La lista delle cose che il governo potrebbe fare è lunga: dal riconoscimento anche ai fini fiscali di una nuova asset class di investimenti ad impatto, che legano rendimenti a obiettivi sociali e ambientali e che non possono essere tassati allo stesso modo di un fondo speculativo per finire a un piano realistico e concreto per le rinnovabili. E invece il decreto sulle “aree idonee” approvato a maggio ha drammaticamente bloccato il processo. Invece di assumersi una responsabilità nazionale per abbattere il costo dell’energia tra i più alti del mondo e attivare un vero piano, definendo una volta e per tutte le aree idonee, adesso si riparte daccapo. E pensare che per installare 57 megawatt di fotovoltaico, quasi raddoppiando la produzione di rinnovabile nel Paese, alla potenza dei pannelli attuali basterebbero 70 mila ettari: una frazione minima dei 4 milioni di ettari attualmente abbandonati, lo 0,4% della superficie agricola italiana. L’Italia si era impegnata ad installare 12 megawatt di rinnovabili all’anno, per i prossimi 7 anni.
Anche qui, il governo eco-scettico non sembra aver percepito. Vedremo, intanto però arrestare il treno della transizione in nome di un approccio “ideologico”, che in realtà sta di casa solo nelle destre sovraniste, significa far deragliare l’Italia. E far perdere all’Europa il vantaggio di aver investito su questo programma da tempo. Insomma, basterebbe ascoltare il governatore della Banca d’Italia. Lo ha capito il mercato, lo ha capito la maggioranza nella Commissione Ue, lo hanno capito le imprese e gli scienziati. Lo hanno capito tutti, tranne il governo italiano, che invece ha scelto una via ideologica e regressiva.
Che si mettano il cuore in pace. La commissaria Ribera, pragmatica e competente, ha detto che andrà avanti. Quindi basta mettere i bastoni tra le ruote. Ora lavoriamo tutti per una transizione pragmatica e concreta.