La nostra presidente Giovanna Melandri per AFFARI & FINANZA. “Bruxelles mantiene la rotta ambientale e sociale. Ora servono investimenti d’impatto e supporti alle imprese che devono eco-ristrutturarsi“
La rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione Ue è un’ottima notizia per la leadership europea in tema di sostenibilità. Era suonata una carica politica/finanziaria contro l’ambizione Esg e impact di Ursula e il timore che un vento nero soffiasse nella direzione opposta, imponendo un cambio di rotta al social green deal, era forte.
Non è andata così. Von der Leyen lo ha detto: «La nostra Europa mantiene la rotta sul Green deal con pragmatismo, neutralità tecnologica e innovazione». Questa frase ci ha fatto tirare un sospiro di sollievo. L’obiettivo è chiaro e il pragmatismo necessario. Avanti tutta.
La leadership europea ambientale e sociale è garantita dal secondo mandato di von der Leyen e Giorgia Meloni, ponendosi all’opposizione, ha posto l’Italia fuori dalla cabina di regia di questa ambizione per 5 anni, schierandola in una ridotta culturale di rallentatori del nuovo capitalismo ecosostenibile, inclusivo e generativo. Peccato. La strada però è tracciata; il temuto passo indietro sul social green deal non ci sarà; bisognerà invece migliorare e accompagnare con massicci investimenti le transizioni ambientali e sociali.
D’altronde gli effetti dei cambiamenti climatici e delle nuove disuguaglianze sono sotto gli occhi di tutti e rischiano di indebolire le nostre democrazie. Questo von der Leyen lo sa benissimo. E l’ha chiarito, garantendo un nuovo “Clean industrial deal” nei primi 100 giorni di mandato. Molto importante l’annunciato Industrial decarbonisation accelerator act, per concentrare investimenti verso aziende che devono affrontare la sfida della sostenibilità partendo da posizioni di svantaggio. Molte imprese rischierebbero altrimenti di rimanere tagliate fuori, lo sappiamo. E non ce lo possiamo permettere. Il presidente di Confindustria Emanuele Orsini ha lanciato l’allarme sui «costi della decarbonizzazione» che presentano il conto alle nostre aziende, mettendone «fuori gioco molte». Lo capiamo, la sfida è dura, e non va sottovalutata. Ed è arrivato il momento di rilanciare la competitività europea grazie a investimenti su industrie e tecnologie pulite. Per questo rappresenta un buon passo in avanti la decisione di concentrare flussi di investimenti verso aziende che devono eco-ristrutturarsi. Non è semplice trovare il giusto compromesso. E le scadenze sono vicine. La riduzione del 90% entro il 2040 delle emissioni nette di Co2 è solo una tappa intermedia verso l’azzeramento entro il 2050.
Servono investimenti. E tanti. E di impatto. Secondo la stessa Unione, il rispetto degli impegni climatici costa all’Europa 620 miliardi all’anno, da qui alla fine del decennio. E non tutti gli Stati sono messi così bene per poter investire su questo terreno. C’è anche il Patto di stabilità, con Italia e Francia in procedura d’infrazione per deficit eccessivo. E allora perché non mettere ancora in comune debito e finanza per la transizione sociale e la decarbonizzazione, escludendo dal Patto di stabilità investimenti a impatto addizionali, intenzionali e misurabili? Le sfide climatiche, sociali e democratiche non sono meno minacciose di una pandemia. E lì siamo stati in grado di farlo. Siamo stati in grado di dimostrare che l’Europa unita può fare moltissimo di fronte alle emergenze. E quella climatica non è forse un’emergenza? Basta dare un’occhiata alle temperature delle nostre città. È una sfida alla quale l’Europa non deve sottrarsi. Anche per esercitare con credibilità una leadership globale.
L’Italia, insieme all’Europa, ha tutto l’interesse a guadagnare terreno competitivo in questo ambito. Certamente nella prossima legislatura non sarà più sufficiente un’impostazione centrata solo su obblighi e compliance, ci vorrà anche una scelta strategica di politiche fiscali comuni. E speriamo che l’Europa di Ursula Von der Leyen e, sarebbe un sogno, gli Usa di Kamala Harris trovino una convergenza su questo a dispetto del «drill, drill, drill» di Trump. L’ho sempre sostenuto, l’armatura regolatoria europea è necessaria ma non sufficiente. Servono investimenti pubblici e incentivi. Oltre alla tassonomia, la SFDR, la recente CSRD per le imprese, oltre al bastone, un po’ di carota. Un piano IRA europeo. Che finora non abbiamo costruito. Abbiamo un «immenso bisogno di investimenti» insiste Mario Draghi. Io direi un immenso bisogno di investimenti ad impatto. Whatever it takes. E non è più possibile pensare a politiche economiche che escludano la sostenibilità. Dobbiamo farci i conti per forza.
Auspico che il governo Meloni comprenda l’urgenza di adottare un approccio sistemico per disegnare e attuare politiche pubbliche che orientino scelte e investimenti impact-driven. Se non lo farà, allora sì che saremo isolati. La mossa di dire no al secondo mandato di Ursula può essere stata coerente, come afferma Meloni; ma è una coerenza fuori dalla storia e dalle grandi sfide del futuro dell’Italia, dell’Europa e del pianeta. La casa sta bruciando, si deve andare avanti verso la decarbonizzazione, la rinaturalizzazione, l’innovazione sociale e tecnologica, verso l’inclusione. Non possiamo stare a guardare o peggio pensare di poter esternalizzare le crisi. No, non è il tempo dei conservatori.